«Sottolineo l’importanza di trovare soluzioni immediate che assicurino cibo e fertilizzanti all’Africa, così da superare la crisi (…) Auspico che si raggiunga un accordo sulle esportazioni di cereali che tenga conto delle richieste e degli interessi di tutte le parti coinvolte e ponga fine al continuo incremento dei prezzi». Le parole pronunciate dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi in occasione del summit Russia-Africa a San Pietroburgo, il 27 e il 28 luglio scorsi, trasmettono efficacemente tutta la preoccupazione per un futuro incerto, e segnalano come il rischio di una crisi acuta non sfugga ai decisori politici. Il 17 luglio, il Cremlino ha optato per l’abbandono unilaterale della Black sea grain initiative, l’iniziativa avviata un anno prima grazie alla paziente mediazione delle Nazioni unite e della Turchia per garantire lo sblocco delle merci agricole ferme nei porti ucraini del Mar Nero: accordi non rispettati, è stata la motivazione fornita da Mosca, che ha lamentato la mancata implementazione delle disposizioni contenute nel memorandum sull’esportazione dei suoi prodotti alimentari e dei fertilizzanti. Così, quell’accordo che il segretario generale dell’Onu, António Guterres, aveva definito «un faro di speranza» è stato per lo meno temporaneamente archiviato, costringendo a fare i conti con una realtà tanto pericolosa quanto tangibile: «La partecipazione a questi accordi è una scelta» – è stato il commento di Guterres alla decisione russa – «ma chi è in difficoltà nei paesi in via di sviluppo non ha una scelta. Centinaia di milioni di persone patiscono la fame, e i consumatori si stanno confrontando con un incremento del costo della vita a livello globale. Saranno loro a pagare il prezzo di tutto questo».
L’appello di al-Sisi a trovare rapidamente una soluzione viene da chi ha ben chiari i contorni della questione: nel 2021, le forniture di Mosca rappresentavano infatti il 50% del totale delle importazioni egiziane di grano, a cui si aggiungevano un ulteriore, cospicuo 28% riconducibile a Kiev e una marcata dipendenza anche per l’approvvigionamento di olio di semi di girasole, elargito per il 73% da Russia e Ucraina. In uno scenario già caratterizzato da accentuata insicurezza, nel quale ampi strati della popolazione dipendono dai generosi sussidi statali per l’accesso al cibo e con i produttori locali che faticano a soddisfare anche solo per metà la domanda interna di beni cerealicoli, è dunque accaduto che a causa dello scoppio del conflitto russo-ucraino la crisi alimentare egiziana si sia trasformata – come evidenziava Michaël Tanchum in un suo contributo per il Middle East Institute – in una vera e propria minaccia economica esistenziale per il paese. Accanto all’iniziale e generalizzata impennata dei prezzi, provocata dall’invasione e dalla conseguente interruzione delle catene di approvvigionamento, l’Egitto ha infatti dovuto fronteggiare un consistente deflusso di valuta estera, con gli investitori che hanno ritirato le loro riserve perché preoccupati dal rischio di instabilità. Ciò ha inevitabilmente compromesso le capacità di acquisto sui mercati internazionali, tanto che nell’anno fiscale 2022/23 Il Cairo ha perso il suo primato di importatore di grano a livello mondiale, fermandosi a 11,2 milioni di tonnellate contro i 12,1 milioni di media del biennio precedente. Nel frattempo, le autorità di politica monetaria hanno dovuto ricorrere per ben tre volte alla svalutazione della divisa nazionale, determinando un ulteriore incremento dei prezzi e incidendo significativamente sull’aumento del costo della vita: nel mese di agosto, il tasso di inflazione su base annua è balzato al 39,7%, con il dato al 71,4% per quanto concerne l’inflazione alimentare. Negli ultimi mesi, l’Egitto ha cercato di tamponare parzialmente l’emergenza, grazie al via libera – nel dicembre del 2022 – di un prestito di 3 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale, nonché in forza di un accordo quinquennale del valore di 500 milioni di dollari siglato ad agosto con la società di agribusiness al-Dhara e l’Abu Dhabi exports office (Adex), al fine di assicurare l’importazione di grano di qualità a prezzi competitivi. Parziale sollievo è poi arrivato dalla diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con Il Cairo che ha guardato anche ad altri produttori in Europa e Asia, oltre che dai 3,8 milioni di tonnellate di grano che il governo egiziano è riuscito a procurarsi dai contadini locali, come risultato dell’ultimo raccolto tra aprile e settembre, senza poi dimenticare che alcune imbarcazioni sono ugualmente salpate dai porti ucraini e hanno seguito rotte alternative rispetto a quelle della Black Sea grain initiative, navigando lungo le coste di paesi Nato come Romania e Bulgaria: così, il 19 settembre, la nave Aroyat battente bandiera di Palau è partita da Čornomors’k con il suo carico di 17.600 tonnellate di grano, destinate anche all’Egitto. La situazione resta però quanto mai precaria, e Il Cairo – che nell’anno fiscale 2023/24 dovrebbe tornare a essere il principale importatore mondiale di grano – rischia di pagare a caro prezzo ogni ulteriore destabilizzazione dei mercati cerealicoli.
In condizioni di evidente fragilità si trova poi la Tunisia, che importava dall’Ucraina e dalla Russia il 54% del suo grano e nell’ambito della Black sea grain initiative ha avuto accesso a oltre 713 mila tonnellate di cereali. Anche in questo caso, la crisi determinata dal conflitto ha finito per acuire problemi oramai strutturali che già il Covid-19 aveva contribuito ad accentuare: l’interruzione delle catene di approvvigionamento provocata dalle due macro-crisi – quella pandemica e quella bellica – ha infatti portato il prezzo del grano a livelli record nel maggio del 2022, costringendo dunque il paese a spendere somme aggiuntive nelle importazioni. Nei primi sette mesi del 2023, Tunisi ha importato beni cerealicoli per un valore di 2,4 miliardi di dinari, pari a circa 780 milioni di dollari, riservando la maggior parte delle risorse – 1,4 miliardi – all’approvvigionamento di grano tenero e di grano duro, che hanno cumulativamente rappresentato il 57,7% dell’import cerealicolo. Il ribasso dei prezzi ha giocato a favore del paese, che pur avendo incrementato del 4,4% la quota di cereali in entrata rispetto allo stesso periodo del 2022 ha speso circa 400 milioni di dinari in meno, mentre sul fronte della produzione interna – a causa soprattutto della prolungata siccità – il raccolto è stato estremamente modesto, attestandosi su 2,7 milioni di quintali rispetto ai 7,5 dello scorso anno. A luglio, la Tunisia ha poi contratto un prestito da 87,1 milioni di dollari presso l’African development bank, con l’obiettivo di finanziare un progetto per lo sviluppo della filiera cerealicola locale e incrementare le capacità di stoccaggio, modernizzando i silos portuali esistenti di Rades e Bizerte, costruendone uno nuovo a Djebel Djelloud e rilanciando il trasporto tramite ferrovia. Negli orizzonti del paese resta però anche il ripristino della Black sea grain initiative, argomento di cui il ministro degli Esteri tunisino, Nabil Ammar, ha discusso durante la sua visita a Mosca del 26 e 27 settembre con il suo omologo Sergej Lavrov. Nel frattempo, due navi cariche ciascuna di 27.500 tonnellate di grano tenero e grano duro russi sono arrivate nel porto tunisino di Sfax.
Il caso siriano, per la sua specificità, appare poi di particolare interesse. La presenza di molteplici centri di potere – tra le ampie porzioni di territorio sotto il controllo di Damasco, le rimanenti sacche di resistenza ribelle, la fondamentale influenza turca nel nord-ovest e le amministrazioni autonome curde nel nord-est – rende lo scenario estremamente composito, ma a causa del pluriennale isolamento, della pesante eredità del conflitto civile, del limitato potere d’acquisto delle famiglie e della rilevante dipendenza di una parte importante della popolazione dagli aiuti umanitari, emerge chiaramente quanto la Siria sia vulnerabile ad aumenti dei prezzi delle commodities o interruzioni delle catene di approvvigionamento, e quanto dunque ulteriori turbolenze sul fronte dei traffici attraverso il Mar Nero risulterebbero difficilmente gestibili.
Ugualmente esposto a ipotetici shock sui fronti dell’offerta e dei prezzi sarebbe quindi il Libano, che a differenza della Siria non può neppure contare su una produzione autoctona di grano di una qualche rilevanza. Il quadro tracciato in una Situation analysis pubblicata nel mese di settembre dalla ong Mercy Corps segnala l’estrema delicatezza della situazione nel paese: fortemente dipendente dalle produzioni cerealicole del Mar Nero, ancora nel 2022 Beirut faceva affidamento per il 77% delle sue importazioni al grano di provenienza ucraina; pertanto, ogni escalation del conflitto che dovesse mettere a rischio tale fonte di approvvigionamento avrebbe un impatto particolarmente grave sul Libano, tanto più se le rotte alternative seguite dalle merci di Kiev – ad esempio attraverso i terminal fluviali del Danubio – dovessero per qualche motivo risultare bloccate. Per il momento, gli acquisti sono sostenuti da un prestito da 150 milioni di dollari erogato dalla Banca mondiale, che rappresenta un vero e proprio cuscinetto di protezione da possibili, improvvise impennate dei prezzi: ciò assicura un afflusso pressoché continuo di grano nel paese, ma al tempo stesso occorre ricordare che il Libano rimane ancora vittima di una serie di crisi – economica, monetaria, fiscale – che con il tempo si sono stratificate e saldate l’una con l’altra, mentre la drammatica esplosione accaduta presso il porto della capitale il 4 agosto del 2020 ha privato lo Stato mediorientale del suo principale silos per lo stoccaggio di lungo periodo dei cereali. Nel momento in cui le risorse della Banca mondiale si esauriranno, Beirut potrebbe dunque di rimanere prigioniera delle summenzionate crisi, il cui impatto è inevitabilmente più forte sulle fasce più deboli della popolazione: questo finirebbe per acuire il disagio e alimentare il malcontento, accentuando quindi ulteriormente la già pronunciata instabilità libanese con conseguenze difficili da prevedere.
Nel suo anno di vita, la Black sea grain initiative ha reso possibile l’esportazione di 32 milioni di tonnellate di cereali in 45 paesi di tre continenti. E se da una parte le Nazioni unite hanno voluto ricordare che l’iniziativa ha permesso di trasferire 725.000 tonnellate di grano a realtà particolarmente bisognose come l’Afghanistan, l’Etiopia, la Somalia, il Sudan e lo Yemen, dall’altra il Cremlino ha rimarcato che in realtà solo il 4% delle forniture cerealicole ha raggiunto gli Stati più poveri del mondo, a fronte invece di ben più considerevoli afflussi verso i paesi più ricchi: una posizione, quella espressa dall’establishment russo, che fa leva su un risentimento nei confronti dell’Occidente ancora capace di infiammare il Sud globale, ma che ignora il senso stesso della Black sea grain initiative, finalizzata ad assicurare una navigazione sicura senza indicare i mercati di destinazione dei beni. Il semplice rilancio delle esportazioni delle commodities alimentari ha comunque fatto sì che i prezzi si raffreddassero, con ricadute positive innanzitutto per gli Stati più bisognosi. Ad oggi, lo stop all’iniziativa non ha prodotto conseguenze irrimediabili, perché la Russia è riuscita a riversare sul mercato ingenti quantità di grano e l’Ucraina ha individuato taluni canali alternativi per le sue esportazioni. Ciononostante, il lavoro diplomatico per il ripristino dell’accordo non deve cessare: un’escalation dovuta a reciproci attacchi tra Mosca e Kiev lungo rotte commerciali insicure potrebbe infatti aprire una nuova fase del conflitto, con ripercussioni significative – e potenzialmente assai gravi – su chi da quegli approvvigionamenti dipende.
Vincenzo Piglionica